domenica 2 agosto 2009

Che cos'è la mafia?

Chissà cosa la gente pensa sia la mafia, forse un’associazione criminale, forse una piovra, forse un retaggio di antica incultura? Forse… forse è tutto questo, ma soprattutto è altro.

Falcone pensava che

“La mafia non è affatto invincibile, è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inerti cittadini ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni"

Ma i fatti sembrano contrastare queste parole, sembra che questo particolarissimo fatto umano sia un fatto naturale, e come il vento, la grandine e le eruzioni vulcaniche, sembra non finire mai.

Mi chiedo perché, ma la risposta temo di saperla…

Al di là delle origini che si perdono nella mitica notte dei tempi, per cui l’etimo sembra nascere da un’antica parola araba, la mafia trova forza vitale nel latifondo, in un rapporto di alleanza “gattopardesca” tra nobiluomini, proprietari di quelli ch’erano feudi e che una storia che sembra andare in un senso nuovo ha trasformato in latifondi, senza nulla togliere dell’antica identità, e gabbelloti, cioè, letteralmente, un affittuario che pagava la “gabella”, ovvero l’affitto del fondo al nobile che poco si curava del suo appezzamento, ma da cui voleva ricavare il massimo possibile, investendo il meno possibile. Non è che per sua natura il gabbelloto fosse un delinquente, ma è vero che i nobili preferivano di gran lunga affidare il proprio fondo ad uno “sperto e malandrino” capace di dominare sui contadini, anche con mezzi spicci, anche con l’aiuto dei campieri, in genere sorveglianti armati dei campi.

Ecco è in quest’ambito che si crea il collegamento tra gente svelta con le armi e capace di tenere in pugno la situazione con la sopraffazione e i cosiddetti “cappeddi”, ovvero gli appartenenti alle classi agiate, che già nel copricapo, il cappello, indicavano la propria appartenenza, in contrapposizione ai “burritta”, ovvero alla povera gente che copriva il capo con un berretto.

Questo nel passato, ma i siciliani sono famosi per una storia gattopardesca, ovvero, una storia che cambia affinchè nulla cambi…

Ed infatti questo legame tra un potere “baronale” e uomini prepotenti non cessò mai, e spesso fu usato a danno del potere dello stato, ma ancora più spesso contro la povera gente.

Ecco sarebbe interessante andare a vedere i rapporti tra lo Stato e questo potere, che definire “malavitoso” o “criminale” diventa riduttivo e non ne rende pienamente la complessità.

Gli antichi “gabelloti” (ma non tutti i gabelloti erano delinquenti) hanno assaporato il potere acquisito con l’alleanza con i baroni. Ma per essi il potere è “la roba” e il controllo del territorio”.

La roba, quella descritta da Verga nella novella omonima, non è il capitale, ma è l’ammucchiarsi di beni, tangibili, visibili, che rendono il possessore “potente” e rispettato. E il controllo del territorio, cioè un capillare controllo di tutto ciò che accade nel territorio di pertinenza, quasi novello dio in terra, sicuramente più efficente del controllo del territorio esercitato legalmente dallo Stato. Proprio la contrapposizione con lo stato è caratteristica del mafioso, ma non la contrapposizione che significa lotta e scontro, il mafioso non vuole la lotta o lo scontro con lo Stato, vuole che lo Stato deleghi a lui, vuole che lo Stato sia lontano, assente. I picciotti che la mafia mandò a Garibaldi (ma non tutti i picciotti furono inviati dai mafiosi) per l’impresa dei Mille stanno a testimoniare la necessità congiunta di baroni e mafiosi per una nuova realtà statuale, più lontana geograficamente dai Borboni, più assente.

E veniamo alla storia dell’Italia repubblicana.

Ai mafiosi, dunque, interessa la roba e il controllo del territorio e confidano sull’intrinseca alleanza con i “baroni” e con i loro epigoni, cioè la novella classe emergente (tutto cambia affinchè nulla cambi). Sono capaci di mille giravolte e cambiamenti: dall’originario controllo dei latifondi, passano al controllo di tutto ciò che porta “roba” e controllo del territorio (perchè l’obiettivo non cambia, cambiano i mezzi per raggiungerlo!).

Quindi ad una nascente Italia postbellica, quando un ministro, Gullo, emana i decreti che avrebbero dovuto portare alla riforma agraria, i mafiosi, alleati ai baroni, mostrano la loro potenza ammazzando decine di sindacalisti, tra cui Placido Rizzotto.

La mafia è perciò la longa manus, grondante di sangue, di interessi di proprietari, ma non solo.

La mafia è capace di diventare la longa manus di interessi più variati, a patto di non avere controlli, di avere in gestione il controllo del territorio e la roba.

Ed ecco Portella della Ginestra, strage attribuita a Salvatore Giuliano ed alla sua banda. Certamente Salvatore Giuliano era presente con i suoi uomini a Portella, ma fu solo il servo sciocco di un disegno più grande di lui, un disegno tracciato da “menti raffinatissime” che, con l’aiuto della mafia (longa manus), voleva estromettere dalla nuova realtà repubblicana le sinistre (il Fronte popolare, che aveva appena 10 giorni prima vinto le elezioni per la prima assemblea regionale) e i contadini. Ed in effetti nello stesso mese di maggio del 1947 le sinistre furono estromesse dal governo nazionale.

E Gaspare Pisciotta l’aveva detto al processo di Viterbo: “Siamo come la Santissima Trinità: noi, la mafia e lo Stato” e accusò il ministro siciliano Scelba di connivenza con la mafia e di promesse fatte a Giuliano in cambio della lotta contro i “comunisti”. Ma Pisciotta fece la fine che tutti sappiamo, dopo aver ucciso Giuliano.

Ecco da Portella in poi tutto discende.

Ora si parla della strage di via D’Amelio e nuovamente a distanza di 17 anni emergono luride connivenze e biechi depistaggi. Caponnetto lo aveva detto dopo la morte di Borsellino “Tutto è finito”: l’antistato e lo Stato sono scesi a patti e hanno fatto il “papello”, come sempre…

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