giovedì 22 luglio 2010

Boris Giuliano


A Palermo quel giorno faceva caldo, un caldo misto a quell’aria pesante, a quello scirocco, che non è solo un vento umido ed afoso, ma è, soprattutto, uno stato d’animo, appiccicoso ed asfissiante. Faceva caldo quel 21 luglio, un caldo appiccicoso che ti trapanava il cuore. Era l’estate del 1979 e nel nostro povero paese succedevano cose strane. L’anno prima era avvenuto il rapimento con l’uccisione degli uomini della scorta di Aldo Moro, che poi si concluse in quel terribile modo che tutti sappiamo. E solo dieci giorni prima di quella calda giornata, l’11 luglio, era accaduto un fatto terribile che metteva in comunicazione il nord con il sud del nostro paese, uniti nella criminalità: Giorgio Ambrosoli, curatore fallimentare della Banca Privata Italiana, controllata da Michele Sindona, era stato assassinato su mandato dello stesso banchiere - affarista - mafioso.

Era il 21 luglio quel giorno caldo ed appiccicoso.

Ebbene a Palermo c’era uno “sceriffo con i baffi”, uno che voleva portar un po’ di chiarezza, voleva rendere l’aria meno mefitica, meno nebbiosa. Lo sceriffo, che era stato nominato capo della polizia in sostituzione di Bruno Contrada, seguiva delle piste interessanti: aveva capito che la mafia stava cambiando pelle, aveva nuovi interessi, nuove strade per “fari picciuli”: ora la strada era quella della droga, e “lo sceriffo con i baffi” l’aveva capito. E solo qualche giorno prima della sua morte aveva incontrato Giorgio Ambrosoli, visto che nel seguire la sua pista della droga aveva avuto modo di imbattersi in un libretto al portatore, con un centinaio di milioni di lire di allora, appartenente a Michele Sindona, il quale sotto falsa identità si trovava in quel periodo in Sicilia, avendo inscenato un falso rapimento. E poi c’era il “fatto della Ficuzza”, eh sì, quel barbaro assassinio avvenuto a Ficuzza, una frazione del comune di Corleone, in cui erano stati uccisi il tenente colonnello dei Carabinieri, Giuseppe Russo, ed il suo amico, il professore Filippo Costa, e in quei giorni di luglio del 1979 il processo stava per concludersi. E c’era un personaggio criminale sullo sfondo, su cui lo sceriffo stava indagando, e di cui aveva compreso la pericolosità criminale, Leoluca Bagarella.

E lo sceriffo con i baffi aveva detto che il 28 luglio avrebbe dato una notizia clamorosa…

Il 28 luglio….

… ma il 21 Leoluca Bagarella uccise a tradimento “lo sceriffo”, Boris Giuliano, mentre era da solo, in un bar di Palermo a prendere un caffè.


domenica 30 maggio 2010

Mafia ed usura

Lavoro di ricerca ed approfondimento di Carlotta Spata

In passato la mafia era riluttante nei confronti dell'usura, che rimaneva pressoché estranea alle famiglie mafiose, che la consideravano unattività non adatta ad un uomo donore, che, anzi, spesso nel quadro di una politica populistica, tendente a dare di sé unimmagine inattendibile alla Robin Hood, difendeva le vittime dell'usura esercitando pressioni sugli usurai.

Oggi invece sempre più spesso elementi anche di spicco di Cosa Nostra si interessano a questa attività, allacciandosi ad operazioni di lavaggio di capitali sporchi. Pertanto le associazioni mafiose, attraverso anche a fenomeni come lusura e le estorsioni, sono riuscite nel tempo e deturpare i mercati locali appropriandosi illegalmente di un sempre maggior numero di imprese,acquisite quasi sempre con dei prestanome, cioè con una proprietà nominalmente fittizia, per cui risultano proprietari di aziende di ogni tipo e con qualsivoglia giro daffari disoccupati, casalinghe e pensionati il cui reddito è ben lontano dalla loro presunta proprietà.

Di sicuro è il possesso da parte delle famiglie mafiose di un enorme liquidità ad aver spinto le suddette organizzazioni criminali ad approfittare del prestito usuraio per riciclare e al contempo perché no a moltiplicare il denaro, ricorrendo spesso anche alla violenza per sottomettere le vittime ai propri interessi. Inoltre, i mafiosi, spesso favoriti dalle buone relazioni con alcuni istituti di credito bancario e ben inseriti nel tessuto economico in generale, sono facilitati nella ricerca di informazioni utili per selezionare e tenere sotto ricatto gli usurati. Tutto ciò aiuta a capire meglio come mai questa piaga, così diffusa nel nostro paese, sia divenuta primaria nellopera delinquenziale di siffatte organizzazioni criminali

Il business della mafia


lavoro di ricerca ed approfondimento di Spata Carlotta

L'usura in Italia non è riconducibile a un'area geografica particolare. Non è la riserva di nessuno. In una stessa zona possono esserci varie forme di strozzinaggio. L'antico sordido usuraio di quartiere, il cosiddetto cravattaro, il cui prototipo ha riempito tante pagine dei grandi romanzi dell'Ottocento è divenuto ai nostri giorni ben altro: un insospettabile professionista, che ha scelto un investimento particolarmente lucroso affidando parte dei suoi risparmi non alle banche, come sarebbe lecito, non ad investimenti borsistici o quantaltro è lecitamente previsto nella nostra economia capitalista per far fruttare il capitale attraverso gli investimenti, ma ad un usuraio, che impiega nel losco traffico i soldi, o, addirittura, il nostro insospettabile professionista presta il danaro direttamente a conoscenti e colleghi di lavoro, in cambio di solide garanzie e di tassi dinteresse fuori da ogni regola; il cravattaro si è trasformato nellapparire ma lessere è sempre lo stesso: sono entrambi delinquenti, uomini di malaffare.
E la mafia?[...] I mafiosi hanno sempre detto di non praticare l'usura, ma dietro questa petizione di principio si nasconde un'ipocrisia: i cosiddetti "uomini d'onore" prestano a strozzo e l'organizzazione lo tollera, magari nascondendolo a volte vergognandosene un po'. Ma la praticano, eccome. In modo più ampio e diffuso di quanto si creda.
Naturalmente l'usura praticata dagli "uomini d'onore" non deve mai entrare in contrasto con gli affari della mafia. Gli usurai non vengono tollerati quando c'è questo pericolo. Non è loro consentito prendere tanto spazio da creare allarme sociale. E chi pratica l'usura senza essere parte delle famiglie mafiose ma trovandosi nelle zone ad alta densità mafiosa, non può illudersi che quei quattrini possano essere esenti dal pizzo.
Giovanni Brusca in Ho ucciso Giovanni Falcone, libro firmato da Saverio Lodato, racconta: "Sotto sotto" erano un bel po' gli "uomini d'onore" che praticavano l'usura". A un suo amico usuraio Brusca disse: "Smettila o ti ammazzo. Smise subito: ma dopo si lamentava dicendomi che gli dovevano dare ancora un sacco di soldi. Gli risposi: Ti scasso tutto, ti rompo le ossa. Se vuoi essere mio amico devi smetterla. Vuoi essere mio amico? Sì? Allora smettila. Io non ne voglio usurai con me. Capitava infatti - conclude Brusca - che qualche poveraccio veniva da noi a lamentarsi di qualche strozzino. Allora si interveniva e si diceva: Facciamogli una tagliata, il che voleva dire costringere l'usuraio ad accontentarsi della semplice restituzione del capitale".
La mafia vuole regnare sovrana, non rinuncia mai a imporre norme che regolamentino gli affari e a contenere le tensioni sui propri territori. Ed impone sempre il rispetto delle regole. In numerosi procedimenti s'è accertato che anche i mafiosi che praticano usura pagano, come tutti gli altri imprenditori del quartiere o della zona, il pizzo alla cosca che controlla il territorio su cui l'usura s'è consumata. Disciplinatamente,. Ci sono poi gli usurai non mafiosi, titolari di una normale attività economica, commercianti che prestano a strozzo e, contemporaneamente pagano alla mafia con regolarità il pizzo sulle proprie attività lecite. La mafia tende a considerarli "a protezione limitata".
Ci fu una rapina presso una gioielleria di Palermo in un quartiere dove la cosiddetta protezione la pagavano tutti. Qualche giorno dopo - il gioielliere aveva protestato col suo protettore - una parte della refurtiva fu restituita al legittimo proprietario. Una parte soltanto, però. L'altra, venne spiegato al commerciante, di cui la mafia ben conosceva lattività parallela di usuraio, faceva parte del prelievo della "famiglia" sui profitti d'usura non dichiarati.
Anche in Calabria, nel Reggino soprattutto, gli uomini della 'ndrangheta non disdegnano l'usura. Non ne hanno l'esclusiva: convivono con usurai non 'ndranghetisti, né l'usura viene mai praticata come attività precipua della cosca, ma gli affiliati, per conto loro, ci si buttano per tirar su quattrini e lo fanno senza pregiudizi. In questo contesto malavitoso estorsione e usura convivono tranquillamente. Talvolta si danno anche una mano per cui può capitare che lo stesso operatore economico sia taglieggiato dall'estorsione e perseguitato dall'usuraio. Due volte vittima di personaggi non legati tra loro, ognuno dei quali, all'occorrenza, fa ricorso all'altro. E se la vittima sta diventando a rischio, nel senso che potrebbe non "onorare" più gli impegni assunti col "normale" usuraio? Quest'ultimo invoglia il suo "cliente" a rivolgersi a un suo amico in grado di prestargli ancor più soldi . E il dramma è scoprire che il nuovo protagonista è legato allorganizzazione mafiosa. E' quella che si chiama un'usura di secondo livello: più alto è il rischio d'insolvenza più alta deve essere la capacità di intimidire. La 'ndrangheta lascia fare. Anche lei può aver bisogno: l'usurato che non restituisce può diventare una "testa di legno", cioè un prestanome per gli affari della cosca, da usare per gestire e ripulire denaro e capitali sporchi.

martedì 4 maggio 2010

Giornalisti

Ieri è stata una giornata importante per l'informazione (e noi in Italia abbiamo bisogno di giornalisti con la schiena dritta). Ieri, in Lombardia, si è voluto ricordare le troppe vittime tra i giornalisti, vittime del terrorismo, vittime della guerra, vittime della mafia, vittime per aver cercato di fare con dignità professionale il proprio lavoro.

Un ricordo per Giancarlo Siani, un ricordo per Walter Tobagi, un ricordo per Ilaria Alpi, un ricordo per Enzo Baldoni, un ricordo per tanti, troppi eroi, non sempre riconosciuti come tali.

Ma un particolare ricodo agli 8 (otto, capite?) giornalisti uccisi dalla mafia:

Cosimo Cristina, ucciso a 24 anni, nel 1960, fu simulato un improbabile suicidio e la chiesa rifiut; di celebrarne i funerali religiosi,

Mauro De Mauro, rapito, ucciso nel 1970 e mai più fatto ritrovare,

Giovanni Spampinato, ucciso nel 1972 a 25 anni,

Giuseppe, Peppino Impastato, fatto saltare in aria con una carica di tritolo per simulare l'attentato terroristico nel 1978, a 30 anni,lo stesso giorno in cui fu ritrovato il cadavere di Aldo Moro assassinato dalle "brigate rosse",

Mario Francese, ucciso nel 1979 a 54 anni,

Giuseppe, Pippo Fava, ucciso nel 1984, a 59 anni,

Mauro Rostagno, ucciso nel 1988 a Trapani, lui che siciliano non era, ma che, come Danilo Dolci era venuto in Sicilia per riscattare i tanti, troppi, che della Sicilia sono vittime,

e Giuseppe, Beppe Alfano, assassinato nel 1993 a 58 anni.

No, non permettiamo a nessuno di ucciderli nuovamente dimenticandoli.

mercoledì 10 marzo 2010

Placido Rizzotto, paladino di una Sicilia giusta

C’era una volta un personaggio dal cuore grande…. E sì, potrebbe cominciare così come una leggenda, come una fiaba senza lieto fine, come “nu cuntu sicilianu” e di personaggi belli per fare u cuntu in Sicilia ce ne sono, non tantissimi, ma ce ne sono.

Sono, i protagonisti di questi cunti siciliani tutti degli eroi, senza macchia e senza paura, non incoscienti, ma coraggiosi, perché lo sanno che fine faranno, eppure continuano, proprio perché questi personaggi dei cunti sono eroi veri e non sopportano le ingiustizie, non sopportano che i più deboli, quelli che nessuno considera, quelli che la protervia dei “bravi” siciliani considera “nuddu ammiscati cu nenti”, debbano patire l’ingiustizia, debbano vivere nella miseria più nera e disperante. Ce ne sono in Sicilia di eroi fatti così,qualcuno si chiamava Giovanni, qualcun altro si chiamava Paolo, un altro Accursio, uno Pio, uno, antichissimo, avvolto nella leggenda, o forse egli stesso leggenda, Colapisci (Nicola Pesce). Oggi vi voglio parlare di un eroe siciliano, che i siciliani, gran parte di essi, non conoscono.

Placido si chiamava, e forse avrebbe amato vivere placidamente, ma ancor di più amava vivere in uno stato giusto, in una terra bella, come la Sicilia è, ma non disgraziata. Durante la resistenza aveva combattuto contro le forze naziste che tenevano in scacco il nostro paese. Poi, tornato nella sua terra, a Corleone (eh sì anche a Corleone nascono le persone per bene) divenne segretario della camera del lavoro ed organizzò i contadini per cercare di rendere concreti quei Decreti del ministro dell’agricoltura Gullo, che prevedevano una distribuzione ai contadini delle terre dei latifondi lasciati incolti.

Ma i proprietari di quei latifondi, alleandosi con la mafia attraverso i loro gabelloti, reagirono con vari forme di illegalità, arrivando anche agli omicidi. E tanti furono in pochi mesi i sindacalisti uccisi.

E poi… e poi toccò a Placido, che lo sapeva che l’avrebbero ucciso, ma non si tirò indietro.

La sera del 10 marzo, proprio come oggi, di 62 anni fa, Placido fu affiancato da alcuni uomini che lo portarono in aperta campagna e lo uccisero, facendone sparire il corpo in un inghiottitoio, una foiba della zona, Roccabusambra si chiama. E da allora Placido si trova lì, difficile il recupero del cadavere, solo parte del corpo è stata portata fuori.


Ma pur in quella immonda sepoltura, insieme alle carcasse di pecore e di altri animali, Placido Rizzotto, il paladino di una Sicilia più giusta ci parla, se vogliamo ascoltarlo. Placido, che non ha mai avuto giustizia, Placido, che tanti hanno dimenticato, Placido vuole insegnare agli uomini ed alle donne di buona volontà quelle parole di un antica poesia popolare siciliana:

Un servu, tempu fa di chista chiazza,

ccussi priava a Cristu e cci dicia:

Signuri! U me patruni mi strapazza!

Mi tratta commu ‘n cani ‘nta la via;

tuttu si pigghia ccu la so manazza

macari a vita e dici ca nun è a mia.

Si ppò mi lagnu cchiù peggiu mi minazza,

a bbastunati mi lliscia u pilu e m’impriggiunìa.

Quindi, ti pregu, chista mala razza,

distruggila tu, Cristu, ppi mia!

“E ttu, forsi hai ciunchi li brazza?

Oppuri l’hai ‘nchiuvati commu a mia?

Cu voli a giustizzia si la fazza

Né speri c’autru la faria ppi tia.

Si ttu si omu e nun si na testa pazza,

metti a fruttu sta sintenzia mia:

iu nun saria supra sta cruciazza

S’avissi fattu quantu dissi a ttia”.

domenica 7 febbraio 2010

Uomini del Colorado, vi saluto e me ne vado

In Sicilia molti giornalisti sono stati assassinati da mani mafiose interessate ad impedir loro di parlare.
E l’elenco è lungo, tristemente lungo.
Uomini che facevano onestamente il loro lavoro di giornalista, cercando la notizia, denunciando le storture di una società malata, soffocata dall’illegalità mafiosa, sono stati zittiti, eliminati con fredda barbarie. Sono stati così uccisi

* Mauro De Mauro nel settembre del 1970, perché era un cronista di razza e aveva scoperto segreti che tali dovevano restare, forse relativi all’uccisione di Enrico Mattei o forse ancora peggio,
* Giovanni Spampinato, la cui uccisione, avvenuta nel 1972 è ancora oggi avvolta in mille interrogativi;
* Mario Francese, che uscendo dalla sede del giornale salutava gli amici giornalisti con “Uomini del Colorado, vi saluto e me ne vado”, lui che per primo aveva capito che un viddano di Corleone era diventato il capo dei capi di cosa nostra e che la sera del 26 gennaio 1979, ritornando a casa, a Palermo, fu ucciso da sicari mafiosi,
* Pippo Fava, assassinato il 5 gennaio 1984 a Catania, che solo qualche giorno prima della sua uccisione, il 28 dicembre 1983, aveva rilasciato ad Enzo Biagi quella che doveva essere la sua ultima intervista
(vedi),
durante la quale dice parole che hanno la gravità di pietre, come diceva Carlo Levi, riportando le parole della madre di Salvatore Carnevale;
* Beppe Alfano, professore di scuola media appassionato di giornalismo, ucciso l’8 gennaio 1993 a Barcellona Pozzo di Gotto perché era “cronista rompicoglioni”, come scrisse Riccardo Orioles sui Siciliani nuovi, un cronista che non aveva neppure il tesserino professionale, che stava indagando su un traffico internazionale di armi che passava - secondo le sue intuizioni - nella zona di Messina. Aveva forse contribuito anche alla cattura del boss Nitto Santapaola nel 1993 e aveva aperto il coperchio della massoneria deviata che speculava sul traffico di arance avvalendosi delle sovvenzioni europee. vedi

Ed ancora delitti hanno riguardato giornalisti che cercavano risposte a tante domande informando attraverso piccole televisioni private i propri spettatori.

Ed ecco Peppino Impastato dilaniato da un’esplosione il 9 maggio 1978, dopo essere stato stordito e legato ai binari per simulare un attentato, ucciso, come racconta assai bene il film “I cento passi” perchè con la sua piccola radio AUT dava fastidio al mafioso locale, Tano Badalamenti.

Ed ecco nella notte del 26 settembre 1988 l’uccisione di Mauro Rostagno, che in Sicilia aveva dato vita ad una comunità Saman e che attraverso l’emittente televisiva Rtc faceva le sue denunce.

E in questi giorni una piccola emittente, Telejato, ha ricevuto la visita della mafia sotto forma di pestaggio del giornalista Pino Maniace.

Guardate questo servizio di Telejato di qualche tempo fa:

venerdì 15 gennaio 2010

Soprattutto nelle scuole...

“È importante parlare di mafia, soprattutto nelle scuole, per combattere contro la mentalità mafiosa, che poi è qualunque ideologia disposta a svendere la dignità dell’uomo per soldi”.
don Pino Puglisi

lunedì 11 gennaio 2010

Accursio Miraglia "Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio"


il boss Vito Genovese con la divisa dell’esercito americano insieme a Salvatore Giuliano


Tanti ma tanti anni fa (ma questa non è una fiaba e non ha un lieto fine) , nel gennaio, il 4 gennaio, del 1947, davanti alla porta di casa, di un paese della Sicilia (amara terra mia, amara e bella), a Sciacca, morì un uomo che diceva di sè una frase ripresa da Hemingway: “Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio”.

E, in effetti, in ginocchio Accursio non visse mai!

Erano quelli anni duri, anni di ferro e di fuoco, s’era da poco usciti dalla guerra e l’Italia aveva conosciuto l’orrore dell’invasione e della guerra civile. Si aveva una gran voglia di cambiar pagina, o almeno alcuni avevano voglia di cambiar pagina.

Nel sud c’era stato lo sbarco degli anglo-americani e l’armistizio di Cassibile e da allora gli uomini di cosanostra avevano preso il controllo della situazione

Scrive Lupo “La storia di una mafia che aiutò gli angloamericani nello sbarco in Sicilia è soltanto una leggenda priva di qualsiasi riscontro, anzi esistono documenti inglesi e americani sulla preparazione dello sbarco che confutano questa teoria; la potenza militare degli alleati era tale da non avere bisogno di ricorrere a questi mezzi. Uno dei pochi episodi riscontrabili sul piano dei documenti è l’aiuto che Lucky Luciano propose ai servizi segreti della marina americana per far cessare alcuni sabotaggi, da lui stesso commissionati, nel porto di New York; ma tutto ciò ha un valore minimo dal punto di vista storico, e soprattutto non ha alcun nesso con l’operazione “Husky”. Lo sbarco in Sicilia non rappresenta nessun legame tra l’esercito americano e la mafia, ma certamente contribuì a rinsaldare i legami e le relazioni affaristiche di Cosa Nostra siciliana con i cugini d’oltreoceano”. [13]

Se l’ipotesi che gli “amici degli amici” abbiano avuto un ruolo decisivo nello sbarco angloamericano in Sicilia è da scartare, è tuttavia innegabile che gli alleati si servirono dell’aiuto di personaggi del calibro di Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo per mantenere l’ordine nell’isola occupata e il boss americano Vito Genovese, nonostante fosse ricercato dalla polizia statunitense, divenne l’interprete di fiducia di Charles Poletti, capo del comando militare alleato.(vedi qui)


In quegli anni in cui il nord sognava una ricostruzione benedetta dal “vento del nord”, il sud sperava in una concreta riforma agraria, benedetta dai “decreti Gullo”.

Miraglia, che apparteneva alla piccola borghesia ( aveva impiantato una piccola attività industriale di conservazione del pesce), aveva fama di benefattore (e non a parole: fece restaurare a proprie spese di una parte dell’orfanotrofio e aiutava concretamente le orfanelle del Boccone del Povero donando generi di prima necessità). Voleva aiutare i contadini vessati dai gabelloti e dai baroni, creando, tra l’altro la prima Camera di lavoro siciliana e la cooperativa “Madre Terra”, chiedendo l’attuazione dei decreti Gullo che destinavano alle cooperative i terreni incolti dei latifondi. Era anche presidente stimatissimo dell’ospedale di Sciacca.

Ebbene Accursio Miraglia morì in piedi: fu ucciso quella sera del 4 gennaio del 1947, mentre stava rincasando, proprio sulla porta di casa. Era un benefattore Accursio Miraglia, ma soprattutto era un nemico di quei latifondisti che sapevano che in Italia tutto cambia perchè nulla cambi e i “decreti Gullo” sarebbero tramontati, come tanti altri sogni. Dunque, un uomo integerrimo come Accursio, che lottava per la povera gente, era un fastidio da eliminare.

La mafia del tempo era infatti il braccio armato dei latifondisti presenti sul territorio. I baroni vivevano invece nelle città e poco si interessavano delle loro terre e della difesa dei feudi. Per tutelare i loro patrimoni allora i proprietari terrieri si servivano di gente, brava più con il fucile che con le parole, che stava sul posto e di fatto gestiva tutto. I mafiosi diventarono così amministratori, campieri, gabelloti e alla fine si impadroniranno di tutto. Mentre ad esempio Luciano Liggio diventa amministratore del feudo di Strasatto, il nostro Carmelo di Stefano, boss di Sciacca, diventa gabelloto del cavalier Rossi e della baronessa Martinez.

Epilogo: i funerali di Accursio Miraglia non avvennero in chiesa, vi furono solo delle esequie civili, perchè i preti dissero che un uomo ch’era morto ammazzato non aveva diritto ai funerali religiosi (così la vittima era equiparata all’assassino, ma poi s’erano scordati di che morte è morto Gesù). La popolazione tributò ad Accursio solenni onori per sei giorni. La famiglia di Accursio, la moglie Tatiana, russa, che non aveva nessuna esperienza negli affari, fu aiutata dai pescatori di Sciacca che portavano a lei il pesce più fresco per la sua industria di conservazione del pesce. Gli esecutori del suo assassinio furono ben presto trovati, confessarono e successivamente ritrattarono e non furono mai puniti. La bara di Accursio Miraglia, che non aveva ricevuto le esequie religiose, fu portata a spalla dai contadini dalla Camera del lavoro fino al cimitero. Appena giunti al camposanto la grigia giornata donò qualche goccia di pioggia e un contadino presente esclamò: “Un ti voseru benediciri l’omini, ma ti binidiciu Diu”.

Vedi anche Blunotte “Terra e libertà. La morte di Miraglia, Rizzotto e Carnevale”