venerdì 11 dicembre 2009

La mafia e la letteratura

Lavoro di Ludovica Ottaviano


Per trovare tracce significative della mafia nelle opere letterarie bisogna risalire alla commedia I mafiusi de le Vicara (1863) di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca, in cui per la prima volta venne impiegato il termine mafia, o, più precisamente quello di mafioso, nel titolo di un testo teatrale. Nella commedia di Rizzotto e Mosca occupa un ruolo di primo piano la presenza di un personaggio forte: un illustre prigioniero politico, l'Incognito, sotto le cui spoglie si nasconde forse Francesco Crispi. Risulterà essere uno dei capi dell'organizzazione camorrista. Sarà proprio lui, nell'ultimo atto, a reintegrare il capo cammorista, lo "zu Iachinu", in una società ormai liberata dai Borboni, che, in virtù del nuovo e vero ordine di giustizia, non ha più bisogno dell'intermediazione di quella "associazione malandrinesca", che invece gli amici di Iachinu, con sua grande disapprovazione, vorrebbero ancora tenere in vita sotto i sabaudi.

La commedia può fornire alcuni primi interessanti dati per la definizione di un paradigma letterario della mafia. In primo luogo, emerge il legame indissolubile tra rivoluzione garibaldina e mafia, tra mafia e una certa politica. In secondo luogo, si palesa, sin dalle origini, un'idea della mafia come associazione senz'altro criminosa, ma comunque anti-borbonica, e addomesticabile dalla classe dirigente siciliana, quella liberale e repubblicana, forse collusa con essa. L'espressione mafia diviene un termine corrente a partire dal 1863 e lopera ebbe grande successo e venne tradotta in italiano, napoletano e meneghino, diffondendo il termine su tutto il territorio nazionale.

Per un secolo, però, da quel momento, graverà tra i letterati la responsabilità di aver fatto cassa di risonanza a quella mitologia mafiosa attribuendole quasi un alone romantico, fino ad arrivare alle opere di Leonardo Sciascia.

Pietro Mazzamuto individua in talune opere siciliane la figura del mafioso aureolato, ovvero uno stereotipo romantico del mafioso, una sorta di Robin Hood siciliano, che troverà veicolo di diffusione attraverso tanta letteratura dappendice, notoriamente consumata da comuni e poco smaliziati lettori siciliani e non solo. Questo mafioso aureolato è diverso dal delinquente comune e anzi opera contro chi detiene il potere per difendere gli abitanti locali. Per esempio ne La lega di Pirandello viene presentato un mafioso che fa pagare ai proprietari terrieri una tassa con la quale integra la miserabile paga dei contadini. Un altro esempio è dato da I Beati Paoli, un romanzo di appendice apparso a puntate sul "Giornale di Sicilia" dal 1909 al 1910 di cui fu autore Luigi Natoli, con lo pseudonimo di William Galt,. In esso la setta degli incappucciati neri, contrariamente a precedenti interpretazioni, veniva presentata come un'associazione protomafiosa, alimentando la leggenda di un'organizzazione segreta nata per vendicare i deboli e portare giustizia laddove giustizia non c'è. Un mito questo di cui la mafia si sarebbe appropriata, per giustificare il suo operato criminoso o magari richiamandosi, quando perdente, all'altra leggenda di una mafia antica e cavalleresca, ancorata a un inderogabile codice d'onore, che si batte contro un'organizzazione nuova, spietata, priva di riferimenti morali. Un poeta in proprio e storico della lirica italiana, Giovanni Alfredo Cesareo, fu autore nel 1921 di una commedia, La Mafia, in cui si trovano, svolti con abilità drammaturgica e capacità di introspezione psicologica, tutti i luoghi comuni su una mafia dispensatrice di giustizia, laddove giustizia non c'è, e soprattutto riparatrice di torti sessuali. Di fronte a un prefetto continentale inetto e buono a nulla, lo scontro ideologico centrale della commedia è quello tra il barone Montedomini, nemico giurato della democrazia e della mafia, con argomenti che sembrano uscire dall'inchiesta di Franchetti e Sonnino, e l'avvocato Rasconà, un mafioso che parla come Capuana; lo scontro ha un lieto fine, che sancisce la vittoria della violenza giusta dell'avvocato mafioso su quella ingiusta dell'aristocratico che si fa sostenitore della cosiddetta legalità dello Stato.

Bisogna aggiungere che, estratta la sostanza storica della commedia dalla sua forma apologetica, non è difficile ravvisare in Rasconà, con felice intuizione, un rappresentante di quella "mafia in guanti gialli", affaristica e borghese, cresciuta e prosperata con l'allargamento del suffragio elettorale. Altri esempi ancora si trovano in Sette e mezzo di Giuseppe Maggiore, ne Il giorno della civetta di Sciascia e in altre opere.

Sciascia nelle sue opere ha una visione meno romantica della mafia anche se ne resta linfluenza ne Il giorno della civetta, quando il capitano Bellodi classifica il mafioso Arena, nonostante le sue nefande azioni, tra gli uomini, ovvero la prima classe per ordine dimportanza creata dal capomafia che distingueva gli uomini secondo la seguente gerarchia: uomini, mezzuomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà. Anche Camilleri, dal canto suo, ne La gita a Tindari accetta lidea che la mafia è nata come sistema protezionistico creato dai cittadini per difendere se stessi, ma contemporaneamente è consapevole che la mafia odierna sia una degenerazione di quella tradizionale. È comunque grazie a Sciascia e allantimafia che gli italiani hanno incominciato a capire lintreccio affaristico tra Potere, Lavoro e Società additatoci da Sciascia in libri quali A ciascuno il suo e il Contesto.Sul tema dei rapporti letteratura-mafia si è occupato lo studio critico-letterario di Massimo Onofri, Tutti a cena da don Mariano. È una ricerca profondamente informata in cui, non solo vengono riproposte e messe in relazione le varie generazioni di scrittori siciliani che si sono occupati di questa problematica, ma anche riflessioni sul tema. In questo saggio vengono messe in evidenza le contraddizioni in cui cadde Giuseppe Pitrè, nelle sue disquisizioni etimologiche e sociologiche attorno alla parola mafia e alla realtà che tale termine implica; si ricorda quella sorta di omertà nei riguardi dellargomento, segnalata da Sciascia, Capuana, Verga; si smaschera il sicilianismo auto- elogiativo, carico di implicazioni filomafiose, presente non solo in Pitrè ma anche in Cesareo, Comandè, nel giudice Lo schiavo e nei volumi memorialistici del prefetto di ferro Cesare Mori. Secondo lo storico delle tradizioni popolari Giuseppe Pitrè, il termine mafia ha come significato originario "graziosità, eccellenza nel suo genere" ed in seguito "coscienza d'esser uomo, sicurtà d'animo... non mai arroganza". Egli descrisse il mafioso come persona che voleva essere rispettata e, se offesa, non ricorreva alla giustizia, perché avrebbe dato prova della propria debolezza.

Secondo lo studioso, l'immagine della mafia come delinquenza sarebbe stata diffusa dallo spettacolo teatrale di Giuseppe Rizzotto I mafiusi di la Vicaria. Capuana, in una conferenza ebbe a chiarire: 'mafia una volta non voleva dire... associazione di malfattori; e il mafioso non era un ladro, né molto meno un brigante. L'aggettivo mafioso significava qualcosa di grazioso e gentile... mafiosa veniva chiamata una bella ragazza, mafioso qualunque oggetto che i Francesi direbbero 'chic'... Oggi mafia e mafioso non sono più niente di tutto questo' ".

Nella ricostruzione della lotta alla mafia Mori rappresenta la cosiddetta «soluzione forte», ovvero quella della sospensione di ogni diritto, delle manieri forti, delle città in stato d'assedio. E' la carta giocata dal neonato regime fascista e spesso rivendicata, successivamente fino ad oggi, come esempio d'un duro e determinato modo di affrontare la malavita organizzata.

Tutta la letteratura sulla mafia viene spesso considerata spazzatura proprio per il fatto che non riesce a sensibilizzare e informare la gente sul problema creando una cultura della legalità. Come Camilleri ha fatto notare in una intervista, analizzare la mafia è compito degli storici, dei sociologi; non è compito di narratori o romanzieri, perché inevitabilmente finiscono con lalterare la realtà, per ricondurla a parametri narrativi e fantastici loro personali. Se sulla mafia possono esistere depistaggi, probabilmente vengono dai narratori, i quali finiscono per innamorarsi dei loro personaggi. Per esempio Piccola pretura, di Giuseppe Guido Loschiavo (romanzo dal quale Pietro Germi trasse il film In nome della legge), magistrato siciliano, ci presenta con una certa simpatia il personaggio di Turi Passallacqua, capo-mafia. Lo stesso avviene ne Il giorno della civetta, di Leonardo Sciascia: Don Mariano è un sottile ragionatore, con una esperienza contadina di saggezza, per cui, in un mondo che inesorabilmente si corrompe, finisce per trovarvi anche dei lati positivi. Nella realtà, i mafiosi lati positivi non ne hanno nessuno. Sono soltanto delinquenti puri, più o meno organizzati, più o meno intelligenti, con sulle spalle morti e stragi. Questo è il punto di partenza, per una serena valutazione del fenomeno: i mafiosi sono dei pericolosi fuorilegge. Bisogna affidarsi agli studiosi, a chi non si limita allo studio del solo processo penale, ma vada alla ricerca delle ragioni profonde della mostruosa evoluzione della mafia. Non soltanto ai giudici bisogna affidarsi.

Quando Romano o Hesse scrivevano i loro saggi sulla mafia, i grandi processi non si sognavano neppure; la mafia era un quid indefinito ed indefinibile. Può e deve esistere una analisi a priori, corroborata, a posteriori, dalle risultanze dei processi. Ma senza le analisi degli specialisti, dei professionisti (usiamo questa espressione in un senso diverso da quello che intendeva Sciascia, che la riferiva solo ai giudici) non si va lontano.

La mafia era prima analfabeta, ma quando ha imparato a leggere ha incominciato ad uccidere i giornalisti perché ha capito limportanza delle parole: un giornalista che scrive, che individua certi legami, certi rapporti, porta le sue intuizioni e conoscenze, crea unopinione pubblica contro la mafia e ciò risulta un rischio enorme per essa. Perciò giornalisti, commentatori e storici, quali Fava, Lupo, Pantaleone, hanno scritto molti libri sulla mafia e solo loro sono in grado di essere completamente neutrali e quindi informare l'opinione pubblica sulla gravità connessa a questa problematica.

martedì 24 novembre 2009

Una ricetta

Anche quest’anno il mio istituto si dà da fare nella direzione di una didattica incentrata sui valori della legalità. Abbiamo aderito, tra l’altro, al progetto proposto dal centro studi “Pio La Torre” di Palermo che ci propone una serie di videoconferenze sul tema. Interessanti gli argomenti, coinvolgenti i relatori. Aderiscono al progetto e sono collegate in videoconferenza 50 scuole siciliane insieme a 30 scuole del resto del territorio italiano.

Oggi secondo appuntamento, il tema è stato:

“L’opposizione storica, sociale e politica alla mafia e la ribellione dell’imprenditoria”.

Relatore il professor Centorrino dell’Università degli studi di Messina. Sono intervenuti altre personalità della società civile e tra essi Vincenzo Conticello dell’Antica Focacceria S. Francesco di Palermo

Vincenzo Conticello

E ci ha raccontato la sua storia…

Poi ci ha dato una ricetta per sconfiggere la mafia, e lui di ricette se ne intende…

una buona dose di politica sana

una burocrazia snella che funzioni

la consapevolezza che non si devono scambiare i diritti con i favori

una chiesa presente e capace di assumersi il compito per cui Cristo l’ha voluta

una magistratura libera di agire, senza pastoie che la constringano a combattere “a mani nude” la criminalità organizzata

una polizia che sia messa nelle condizioni di agire

e su tutto ed insieme a tutto i cittadini, ciascun cittadino che facciano il proprio dovere, ciascuno nel suo campo, assumendosi la responsabilità diretta delle proprie azioni, formando una comunità antimafiosa.


domenica 25 ottobre 2009

L'iniziazione e la gerarchia delle famiglie


Lavoro di ricerca di Arianna Veloce


Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi ad una religione.[1] Ogni membro, che accetta di entrar a far parte dell'organizzazione, deve sottoporsi al rituale dell'iniziazione. Il candidato viene condotto in una stanza alla presenza del rappresentante della famiglia e di altri semplici uomini d'onore; spesso questi ultimi stanno schierati da un lato, mentre l'iniziato si pone sull'altro. A questo punto il rappresentante della famiglia espone all'iniziato le norme che regolano l''organizzazione, affermando prima di tutto che quella che normalmente viene chiamata mafia, in realtà si chiama Cosa Nostra. Cominciando ad elencare gli obblighi che dovranno essere rigorosamente rispettati: non desiderare la donna di altri uomini d'onore, non rubare, non sfruttare la prostituzione, non uccidere altri uomini d'onore, salvo in caso di assoluta necessità, evitare la delazione alla polizia, non mettersi in contrasto con altri uomini d'onore, dimostrare sempre un comportamento serio e corretto, mantenere con gli estranei il silenzio assoluto su Cosa Nostra, non presentarsi mai ad altri uomini d'onore da soli, in quanto le regole impongono che un altro uomo d'onore, conosciuto da coloro i quali devono mettersi in contatto, garantisca la rispettiva appartenenza a Cosa Nostra, pronunciando le parole: Quest'uomo è la stessa cosa[2]. A questo punto il rappresentante invita l'iniziato a scegliersi un padrino tra gli uomini d'onore presenti e comincia la cerimonia del giuramento. Si tratta di domandare al nuovo venuto con quale mano è solito sparare e di incidere sull'indice di questa mano un piccolo taglietto per farne uscire una goccia di sangue con cui viene imbrattata un'immagine sacra (spesso quella dell'Annunziata, ritenuta padrona di Cosa Nostra). In alcune famiglie è usanza pungere (rito della "punciuta", per cui l'iniziato è detto "punciutu") l'indice con una spina di arancio amaro, in altre, come nella famiglia di Riesi, con una spilla d'oro, che veniva utilizzata esclusivamente per questo rituale. Viene dunque dato fuoco all'immagine e l'iniziato dovrà farla passare da una mano all'altra giurando fedeltà, meritando in caso contrario di bruciare come l'immagine. Contemporaneamente il rappresentante ricorda al neofita in tono severo di non tradire mai le regole dell'organizzazione. A questo punto viene spiegata la gerarchia della famiglia. La cellula base di Cosa nostra è la famiglia con i suoi valori tradizionali: rispetto dei vincoli di sangue, fedeltà, amicizia e onore. La famiglia fa capo ad un unico uomo: il padre-padrone, corrispondente al padre di amiglia. L'onore si accresce attraverso l'obbedienza: in cambio della disponibilità i mafiosi aumentano il loro carico d'onore, ottenendo cosi più denaro, più informazioni e più potere. L'onore comporta però l'obbligo di dire sempre la verità (da ciò discende lo stile notoriamente ellittico degli scambi tra mafiosi), dovere che promuove in un certo qual senso la fiducia reciproca che scarseggia tra i fuorilegge. Ma i doveri di fiducia spiegano anche quegli elementi dell'onore mafioso che riguardano il sesso e il matrimonio. I nuovi iniziati giurano di non trarre guadagno dalla prostituzione e di non andare a letto con la moglie di un altro mafioso, pena la condanna a morte; a tale destino saranno sottoposti inoltre tutti quegli uomini d'onore che ostenteranno le loro ricchezze, e si daranno al gioco d'azzardo. L'onore inoltre esige che un mafioso anteponga gli interessi di Cosa Nostra a quelli dei suoi familiari. Come l'onore mafioso, la religione mafiosa aiuta gli uomini d'onore a giustificare le loro azioni davanti a se stessi, agli altri mafiosi e alle loro famiglie. I mafiosi amano spesso pensare che se uccidono lo fanno in nome di qualcosa più elevato del denaro e del potere: l'onore e Dio. Così per la mafia l'onore diventa un senso del merito professionale, un sistema di valori e il totem di un'identità di gruppo, e come tale non ha niente a che fare con la tradizione siciliana, con il cattolicesimo o con la cavalleria[3]. Ogni famiglia può contare anche 200 o 300 membri, ma la media è di circa 50. Ogni famiglia controlla un suo territorio dove niente può avvenire senza il consenso del capo. Alla base vi è l'uomo d'onore, il soldato, che ha un suo peso nella famiglia indipendentemente dalla carica che vi può ricoprire. Tra loro i mafiosi si definiscono "compari"[4], che equivale al termine di uomo d'onore. L'unione di più famiglie che hanno rapporto di consanguineità o che hanno acquisito una parentela con il comparaggio (che si ottiene facendo da padrino ad un battesimo o da testimone ad un matrimonio), costituisce la cosca. Il legame tra i mafiosi rimane indissolubile a distanza di anni, per cui un picciotto, anche se si trasferisce all'estero, resta sempre affiliato alla famiglia di provenienza. Personaggi leggendari in seno a Cosa Nostra come don Calò Vizzini o Giuseppe Genco Russo o Vincenzo Rimi o Tommaso Buscetta rimarranno per tutta la vita soldati, a dispetto della loro influenza e del loro prestigio. I soldati eleggono il capo che chiamano rappresentante, in quanto tutela gli interessi della famiglia nei confronti di Cosa Nostra. L'elezione si svolge a scrutinio segreto ed è preceduta da una serie di sondaggi e contatti; quasi sempre è confermata all'unanimità. Inoltre i capi delle diverse famiglie di una provincia (Catania, Agrigento, Trapani) nominano il cosiddetto rappresentante provinciale. Questo vale per tutte le province fatta eccezione per quella di Palermo, dove, in genere, un capo mandamento controlla più famiglie contigue su uno stesso territorio, esso è membro della Commissione, o Cupola provinciale. La cupola ha funzione di coordinamento territoriale tra le famiglie, tuttavia nessun omicidio ordinato dalla commissione può essere eseguito senza il benestare della famiglia di competenza. A sua volta questa Cupola nomina un rappresentante alla Commissione Regionale, composta da tutti i rappresentanti provinciali di Cosa Nostra: è questo l'organo massimo dell'organizzazione, che viene chiamata dagli uomini d'onore la Regione. Questa emana i decreti, come quello che proibisce i sequestri di persona in Sicilia, risolve i conflitti e prende tutte le decisioni strategiche.

Attorno a cosa nostra si muovono gruppi non mafiosi (come avveniva per il contrabbando di sigarette prima di quello della droga), che sono generalmente coordinati da singoli uomini d'onore.

La mafia si caratterizza, altresì, per la sua rapidità nell'adeguare valori arcaici alle esigenze del presente, per la sua abilità nel confondersi con la società civile, per l'uso dell'intimidazione e della violenza, per il numero e la statura criminale degli adepti, per la sua capacità ad essere sempre diversa e sempre uguale a se stessa[5]. Un boss mafioso ha un diritto assoluto a tenere sotto sorveglianza la vita dei suoi uomini, può accadere infatti che un mafioso debba chiedere al suo superiore il permesso di sposarsi. È essenziale che il singolo mafioso faccia una scelta giudiziosa quando vuole prendere moglie, infatti, più ancora degli altri mariti, i mafiosi hanno il dovere di tenersi buone le loro consorti, perché cè il rischio che una moglie di mafia, scontenta del comportamento del proprio marito, decida di parlare alla polizia, danneggiando gravemente lintera famiglia. Per dirla con il giudice Falcone la moglie legittima non venga umiliata nel suo ambiente sociale. La donna ha nellorganizzazione non un ruolo decisionale, bensì il compito di tenere lamministrazione del nucleo familiare privato di ogni buon uomo donore. Cura anche i rapporti con la gente e educa i figli a quei principi di cui lorganizzazione è legata, tra cui la vendetta. I giovani infatti sono educati a combattere con tutti e contro tutto, attribuendo il massimo valore al prestigio familiare e personale, da accrescere con mezzi leciti o illeciti. I mafiosi sposano spesso le sorelle e le figlie di altri uomini donore, donne che hanno trascorso la vita in un ambiente mafioso. Può anche accadere che le donne appoggino attivamente il lavoro dei loro uomini, seppur in ruoli subordinati. Le donne non possono essere ammesse nella mafia, infatti lonore è una qualità esclusivamente maschile, ma lonore di un mafioso accresce il prestigio di sua moglie e il buon comportamento di lei a sua volta il carico donore del marito.

Gli studiosi di questo fenomeno sono soliti distinguere tra una vecchia mafia, quella originaria, e una nuova mafia, quella sorta negli anni sessanta, con caratteristiche in parte diverse. Afferma G. Falcone che però è necessario distruggere tale mito, o meglio bisogna convincersi che cè sempre una nuova mafia pronta a soppiantare quella vecchia.



[1] Cose di cosa nostra di Giovanni Falcone in collaborazione con Marcelle Padovani. P. 97

[2] Cose di cosa nostra di Giovanni Falcone in collaborazione con Marcelle Padovani p. 98

Le informazioni sono state tratte dal libro Cose di cosa nostra di Giovanni Falcone in collaborazione con Marcelle Padovani editore Bur e dal libro Cosa nostra di John Dickie editori Laterza

[3] John Dickie, Cosa Nostra, storia della mafia siciliana, Ed. Laterza

[4] Curiosa è la storia del termine il padrino come persona mafiosa: quando Mario Puzo scrisse il suo best seller sulla mafia, tradusse in inglese il termine con cui i mafiosi di un certo rango si chiamavano tra di loro "compari", appunto godfather in inglese, che il traduttore italiano, dimenticando che il termine originariamente era in siciliano, ritradusse pedissequamente in padrino

[5] G. Falcone M. Padovani, Cose di Cosa Nostra, RCS Rizzoli Libri, Milano 1992

domenica 2 agosto 2009

Che cos'è la mafia?

Chissà cosa la gente pensa sia la mafia, forse un’associazione criminale, forse una piovra, forse un retaggio di antica incultura? Forse… forse è tutto questo, ma soprattutto è altro.

Falcone pensava che

“La mafia non è affatto invincibile, è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inerti cittadini ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni"

Ma i fatti sembrano contrastare queste parole, sembra che questo particolarissimo fatto umano sia un fatto naturale, e come il vento, la grandine e le eruzioni vulcaniche, sembra non finire mai.

Mi chiedo perché, ma la risposta temo di saperla…

Al di là delle origini che si perdono nella mitica notte dei tempi, per cui l’etimo sembra nascere da un’antica parola araba, la mafia trova forza vitale nel latifondo, in un rapporto di alleanza “gattopardesca” tra nobiluomini, proprietari di quelli ch’erano feudi e che una storia che sembra andare in un senso nuovo ha trasformato in latifondi, senza nulla togliere dell’antica identità, e gabbelloti, cioè, letteralmente, un affittuario che pagava la “gabella”, ovvero l’affitto del fondo al nobile che poco si curava del suo appezzamento, ma da cui voleva ricavare il massimo possibile, investendo il meno possibile. Non è che per sua natura il gabbelloto fosse un delinquente, ma è vero che i nobili preferivano di gran lunga affidare il proprio fondo ad uno “sperto e malandrino” capace di dominare sui contadini, anche con mezzi spicci, anche con l’aiuto dei campieri, in genere sorveglianti armati dei campi.

Ecco è in quest’ambito che si crea il collegamento tra gente svelta con le armi e capace di tenere in pugno la situazione con la sopraffazione e i cosiddetti “cappeddi”, ovvero gli appartenenti alle classi agiate, che già nel copricapo, il cappello, indicavano la propria appartenenza, in contrapposizione ai “burritta”, ovvero alla povera gente che copriva il capo con un berretto.

Questo nel passato, ma i siciliani sono famosi per una storia gattopardesca, ovvero, una storia che cambia affinchè nulla cambi…

Ed infatti questo legame tra un potere “baronale” e uomini prepotenti non cessò mai, e spesso fu usato a danno del potere dello stato, ma ancora più spesso contro la povera gente.

Ecco sarebbe interessante andare a vedere i rapporti tra lo Stato e questo potere, che definire “malavitoso” o “criminale” diventa riduttivo e non ne rende pienamente la complessità.

Gli antichi “gabelloti” (ma non tutti i gabelloti erano delinquenti) hanno assaporato il potere acquisito con l’alleanza con i baroni. Ma per essi il potere è “la roba” e il controllo del territorio”.

La roba, quella descritta da Verga nella novella omonima, non è il capitale, ma è l’ammucchiarsi di beni, tangibili, visibili, che rendono il possessore “potente” e rispettato. E il controllo del territorio, cioè un capillare controllo di tutto ciò che accade nel territorio di pertinenza, quasi novello dio in terra, sicuramente più efficente del controllo del territorio esercitato legalmente dallo Stato. Proprio la contrapposizione con lo stato è caratteristica del mafioso, ma non la contrapposizione che significa lotta e scontro, il mafioso non vuole la lotta o lo scontro con lo Stato, vuole che lo Stato deleghi a lui, vuole che lo Stato sia lontano, assente. I picciotti che la mafia mandò a Garibaldi (ma non tutti i picciotti furono inviati dai mafiosi) per l’impresa dei Mille stanno a testimoniare la necessità congiunta di baroni e mafiosi per una nuova realtà statuale, più lontana geograficamente dai Borboni, più assente.

E veniamo alla storia dell’Italia repubblicana.

Ai mafiosi, dunque, interessa la roba e il controllo del territorio e confidano sull’intrinseca alleanza con i “baroni” e con i loro epigoni, cioè la novella classe emergente (tutto cambia affinchè nulla cambi). Sono capaci di mille giravolte e cambiamenti: dall’originario controllo dei latifondi, passano al controllo di tutto ciò che porta “roba” e controllo del territorio (perchè l’obiettivo non cambia, cambiano i mezzi per raggiungerlo!).

Quindi ad una nascente Italia postbellica, quando un ministro, Gullo, emana i decreti che avrebbero dovuto portare alla riforma agraria, i mafiosi, alleati ai baroni, mostrano la loro potenza ammazzando decine di sindacalisti, tra cui Placido Rizzotto.

La mafia è perciò la longa manus, grondante di sangue, di interessi di proprietari, ma non solo.

La mafia è capace di diventare la longa manus di interessi più variati, a patto di non avere controlli, di avere in gestione il controllo del territorio e la roba.

Ed ecco Portella della Ginestra, strage attribuita a Salvatore Giuliano ed alla sua banda. Certamente Salvatore Giuliano era presente con i suoi uomini a Portella, ma fu solo il servo sciocco di un disegno più grande di lui, un disegno tracciato da “menti raffinatissime” che, con l’aiuto della mafia (longa manus), voleva estromettere dalla nuova realtà repubblicana le sinistre (il Fronte popolare, che aveva appena 10 giorni prima vinto le elezioni per la prima assemblea regionale) e i contadini. Ed in effetti nello stesso mese di maggio del 1947 le sinistre furono estromesse dal governo nazionale.

E Gaspare Pisciotta l’aveva detto al processo di Viterbo: “Siamo come la Santissima Trinità: noi, la mafia e lo Stato” e accusò il ministro siciliano Scelba di connivenza con la mafia e di promesse fatte a Giuliano in cambio della lotta contro i “comunisti”. Ma Pisciotta fece la fine che tutti sappiamo, dopo aver ucciso Giuliano.

Ecco da Portella in poi tutto discende.

Ora si parla della strage di via D’Amelio e nuovamente a distanza di 17 anni emergono luride connivenze e biechi depistaggi. Caponnetto lo aveva detto dopo la morte di Borsellino “Tutto è finito”: l’antistato e lo Stato sono scesi a patti e hanno fatto il “papello”, come sempre…

La nostra terra bellissima e disgraziata.....


“La lotta alla mafia è il primo problema
da risolvere nella nostra bellissima terra disgraziata. Non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente
le nostre giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la
bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del
compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.
Ricordo la felicità di Falcone quando in un breve periodo di entusiasmo egli mi disse: “La gente fa il tifo per noi.” E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale
della popolazione dava al lavoro del giudice, significava qualcosa di più, significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche svegliando le coscienze.”

Paolo Borsellino

sabato 25 luglio 2009

Mafia ed economia

Lavoro di ricerca di Gaetano Di Stefano

L'impatto che la presenza criminale ha oggi sulla vita economica dell'isola sembra essere fondamentalmente legato all'attività criminale di base dei gruppi mafiosi: il pizzo
. Gli esperti concordano infatti che tra le varie tipologie di attività illecite che hanno un impatto negativo sull'economia della regione, prima in ordine d'importanza risulta essere l'attività estorsiva, seguita da usura, traffico e spaccio di droga, commercio di armi, rapine.

L'usura è una relativa novità per le organizzazioni mafiose occidentali. Questo "mestiere" non era considerato degno di un uomo d'onore, e spesso i boss, secondo una politica di tipo populistico difendevano le vittime dell'usura esercitando pressioni sugli usurai. Oggi, elementi anche di spicco di Cosa Nostra si dedicano a questa attività, che può anche associarsi ad operazioni di riciclaggio di capitali sporchi. Usura ed estorsione rappresentano fenomeni di fatto incontrastati (se si esclude la reazione pressoché autogestita rappresentata da alcuni comitati antiracket dei commercianti, prevalentemente attivi nelle province orientali, e la recente creazione da parte dello stato di una nuova figura: il commissario Nazionale Antiracket), che hanno nel corso del tempo deformato i mercati locali:

  • la prima rappresenta spesso il primo passo per processi di controllo sulle attività produttive, che portano poi all'acquisizione forzata delle imprese da parte della mafia, imprese che vengono quasi sempre governate tramite prestanome;

  • la seconda apre un canale di comunicazione tra imprenditore, piccolo o grande che sia, e mafioso, tramite il quale l'operatore economico privo di scrupoli può entrare in un rapporto di collaborazione con la famiglia mafiosa, ricavandone in cambio benefici finanziari come forniture, appalti, posizioni di rendita, favoritismi da parte di pubblici amministratori e concessioni.

Per quanto riguarda le forme di controllo criminale sull'economia, esse si estendono a gran parte del sottosistema economico legale che ,spesso, esercita funzioni di copertura. Il settore più coinvolto è quello delle opere pubbliche, nel quale si registra comunque un'evoluzione. Il passato, anche recente, era caratterizzato dalla fortissima presenza delle forme di intermediazione criminale tra enti locali ed imprese e tra le imprese ed il mondo criminale minore. Di questa intermediazione neanche le grandi imprese del Nord appaltatrici di molte opere pubbliche in Sicilia hanno mai voluto fare a meno, e non solo per timore di attentati mafiosi in caso di resistenza, ma anche perché l'entrata nelle cordate politico-mafiose garantiva la certezza dell'acquisizione degli appalti.
Dopo lo scossone politico del 1993, dopo le stragi del '92, che colpirono i giudici Falcone e Borsellino, e le vicende giudiziarie di Mani pulite, che determinarono la fine della cosiddetta Prima Repubblica, con
la formazione di nuove giunte comunali e provinciali, vi furono novità significative sul fronte degli appalti pubblici. Gli appalti chiusi, le procedure di certificazione delle imprese, il ricorso limitato, o in alcuni casi nullo, a forme di trattativa eccessivamente discrezionali come la licitazione privata, ecc. hanno contribuito a far compiere grandi passi avanti in termini di trasparenza e regolarità. Si deve, inoltre, tener conto dell'impatto sulla situazione siciliana della politica di rigore determinata dai cambiamenti politici nazionali, che, riducendo le risorse a disposizione, ha ulteriormente contribuito a rendere questo settore meno appetibile per la mafia. Vi è però chi ritiene che il controllo sulle commesse pubbliche sia ancora diffuso, anche se in maniera minore che in passato; certo esso è meno plateale e diretto, in quanto si ricorre a forme di camuffamento (subappalti, partecipazioni a "scatole cinesi", costituzione di società "pulite" ad hoc). Vi è inoltre un meccanismo che può scavalcare la vigilanza esercitata anche dai più rigorosi e ben intenzionati pubblici amministratori, ovvero quello della cosiddetta "turnazione". Esso si basa su un accordo tra i vari imprenditori locali che possono essere interessati agli appalti della pubblica amministrazione, accordo immancabilmente garantito da un gruppo mafioso. Secondo questo accordo, una sola azienda partecipa ad una gara d'appalto, aggiudicandosela senza dover praticare ribassi. Alla gara successiva prenderà parte un'altra azienda, anch'essa da sola, che verrà così risarcita per essersi astenuta dalla precedente. In seguito toccherà a turno alle altre ditte, finché non avranno avuto tutte la loro parte. Ovviamente esistono diverse varianti di questo meccanismo che lo rendono ben più difficile da individuare, per esempio la partecipazione di più aziende con ribasso concordato per favorire quella che deve vincere la gara, ecc.

Dagli utili extra dell'azienda vincitrice (che non necessariamente è quella che poi eseguirà effettivamente i lavori) verranno prese le quote per il capomafia che ha garantito lassegnazione dellappalto, per i funzionari compiacenti, per i politici che hanno fatto ottenere l'appalto. Per quanto riguarda linfluenza della mafia sulle opere pubbliche cè da dire , inoltre, che la realizzazione del ponte di Messina (che sarà, se verrà costruito, una delle opere più importanti del mondo) rappresenta una grandissima fonte di guadagno per le organizzazioni mafiose, in termini di profitto ma soprattutto di potere, il quale è stato da sempre la ragion dessere della mafia. L'intreccio economia-mafia coinvolge anche altri settori produttivi, soprattutto il commercio, l'edilizia, il credito. Il settore creditizio in particolare ha avuto un ruolo cruciale: il controllo politico di grandi istituti bancari regionali come il Banco di Sicilia e la Sicilcassa ha favorito i grandi gruppi industriali partecipanti al perverso intreccio triangolare tra politica-mafia-imprese, a favore degli imprenditori collusi e parassitari, e a danno della piccola e media impresa. Il credito politicamente condizionato ha portato nel corso del tempo questi istituti a situazioni di grave sofferenza bancaria, che oggi, anche dopo l'intervento delle forze dell'ordine ed i cambi di gestione, costringono ad una politica di estrema prudenza nella concessione dei crediti e di rifiuto del rischio d'impresa, a ulteriore danno dell'imprenditoria sana. Specialmente nel settore del commercio al dettaglio, la restrizione del credito ha gettato non pochi operatori nelle braccia dell'usura (problema di cui fa menzione Tano Grasso nel suo libro intitolato U Pizzu e per il quale sono state prese adeguate contromisure, ovvero nuove forme di credito fiduciario).

L'intreccio mafia-imprese-politica ha portato conseguenze estremamente negative per la crescita economica della Sicilia, specie nel lungo termine. Ricadute negative sono state:


- la mancanza di programmazione nella realizzazione di infrastrutture, per cui le strade, per esempio, non sono state realizzate dove servivano effettivamente, ma nei territori controllati dai gruppi mafiosi e/o nei quali si trovavano le imprese di costruzioni colluse;

- il mancato completamento di opere pubbliche (autostrade, acquedotti, viabilità locale, dighe, reti di trasporto urbano) che avrebbero potuto a loro volta, se ultimate, essere fattori di sviluppo economico e sociale;

- la realizzazione di infrastrutture di bassissima qualità, che richiedono interventi costosi e continui di manutenzione e comunque non garantiscono una funzionalità piena (in alcuni casi, si tratta di opere pressoché inutilizzabili);

- la creazione di un'economia "drogata", basata, non sulla capacità imprenditoriale e la competitività delle aziende, ma sulla negoziazione segreta tra imprenditori, mafiosi e politici, totalmente dipendente dal denaro pubblico e suscettibile di crollare non appena tale denaro venga a mancare;

- la nascita di aziende "false", incapaci di sopravvivere al di fuori del mercato "drogato", che producono beni e servizi a prezzi gonfiati e di poca o nessuna competitività; aziende che inoltre, nel momento in cui vengono sequestrate, non è possibile piazzare sul mercato, e creano seri problemi occupazionali.

Occorre prendere ,inoltre, in esame quella che è stata la politica dell'intervento dello Stato per innescare lo sviluppo del Mezzogiorno,cercando di far uscire l'economia locale dalla stagnazione. Nella valutazione degli effetti della politica di intervento pubblico sul Mezzogiorno è il caso di fare dei distinguo.

Se nel lungo periodo e con specifico riguardo ad alcuni aspetti sociali è innegabile un effetto di tipo positivo (aumento del reddito, infrastrutturazione), non si può d'altra parte negare che l'intervento pubblico abbia avuto un peso significativo anche in termini di crescita economica delle attività criminali. Più in generale, esso non è riuscito a liberarsi del carattere assistenziale e strumentale di un'azione nei fatti incapace di determinare esiti di sviluppo autopropulsivo.Il problema è, ancora una volta, quello del rapporto tra sistema politico e criminalità organizzata: si tratta di un rapporto intenso nel passato ed ancora presente, fondato su una omogeneità di interessi (da una parte, l'accumulazione di consenso sociale ed elettorale e dall'altra l'accumulazione di risorse economiche ed il potere) tra due sistemi che si sono integrati in una varietà di forme, dalla compenetrazione organica allo scambio permanente od occasionale. Tale compenetrazione avrebbe una lunga storia alle spalle: c'è addirittura chi la fa risalire agli ultimi anni del feudalesimo, del quale la personalizzazione perversa dei rapporti politici nell'isola sarebbe tutto sommato la prosecuzione. Per quanto riguarda le modalità del rapporto, il modello prevalente sembra essere quello della negoziazione tra due sistemi (quello politico e quello criminale) peraltro indipendenti: il politico "acquista" voti e il boss mafioso li offre. Non di rado accade che un boss, insoddisfatto delle offerte di un politico in termini di protezioni, appalti, ecc., entri in trattative anche con altri candidati, dividendo poi tra 2-3 di essi il pacchetto di voti che controlla. E' difficilmente credibile, data la segretezza del voto, che la compravendita di voti in Sicilia si sia basata o si basi su un meccanismo intimidatorio. Essa probabilmente funziona grazie ad una rete di interessi comuni: l'elettore che vota secondo le indicazioni del boss o dei suoi associati non lo farebbe per paura, ma per convenienza personale (scambio di favori, aspettativa di benefici, affari in comune, ecc.).Certo è che, al momento attuale, la situazione sembra per molti aspetti in una fase interlocutoria: numerosi segnali fanno sospettare la ricerca di nuove alleanze tra organizzazioni criminali e forze politiche e non sono ancora chiari i possibili assetti del futuro. Del resto è vero che, parallelamente al terremoto portato sull'isola dai fatti del '92, dal '93, si è avuta una ridistribuzione notevole del voto su base nazionale, che ha interessato anche l'isola. Nuovi soggetti politici e nuovi equilibri hanno obbligato i gruppi criminali a rivedere le loro strategie elettorali. Nel discorso più generale dell'intervento pubblico in Sicilia, un capitolo a parte è rappresentato dal rapporto problematico con la pubblica amministrazione, e con la Regione siciliana in particolare, accusata da più parti di rappresentare un modello di rapporti clientelari e di sudditanza non in grado di sviluppare funzioni positive di servizio per le imprese e i cittadini e caratterizzata da un'inefficienza funzionale allo sviluppo di forme di mediazione gestite dall'esterno da più soggetti, tra cui le organizzazioni mafiose.

BIBLIOGRAFIA

Tano Grasso, "U pizzo"

Giovanni Falcone in collaborazione con Marcelle Padovani, "Cose di Cosa Nostra"

www.siciliano.it

www.news2000.libero.it

www.svileg.censis.it (sito principale)

lavoro di ricerca di Gaetano Di Stefano

martedì 21 luglio 2009

Riflettiamo


"La speranza di questi ragazzi è ora di non abbassare mai la testa. La pistola che è sfuggita di mano alla mafia è la cultura."
Felicia Bortolotta Impastato madre di Peppino Impastato, ucciso dalla mafia il 9, 5, 1978


"La lotta alla mafia è il primo problema da risolvere nella nostra bellissima terra e disgraziata. Non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le nostre giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone quando in un breve periodo di entusiasmo egli mi disse: La gente fa il tifo per noi. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l'appoggio morale della popolazione dava al lavoro del giudice, significava qualcosa di più, significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche svegliando le coscienze".
Paolo Borsellino


"La mafia non è affatto invincibile, è un fatto umano e, come tutti i fatti umani, ha un inizio e avrà una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere, non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni"
Giovanni Falcone


"Purtroppo i giudici possono agire solo in parte nella lotta alla mafia. Se la mafia è un'istituzione antistato che attira consensi perchè ritenuta più efficiente dello Stato, è compito della scuola rovesciare questo processo perverso, formando giovani alla cultura dello Stato e delle istituzioni."
Paolo Borsellino

domenica 19 luglio 2009

BRAVERIA


"Per avere un'idea di che cosa fosse in origine la mafia, basta pensare alle considerazioni che il Manzoni, nei "Promessi Sposi", svolge sul fenomeno della braveria. Sgherri del tipo dei bravi, al servizio degli interessi e dei capricci dei nobili, in Sicilia furono i prototipi dei mafiosi.
In Lombardia, caduto il dominio spagnolo e subentrato quello austriaco, attraverso riforme sociali e trasformazioni economiche, e soprattutto grazie alla correttezza dei funzionari statali e quindi di tutto l'apparato amministrativo dello Stato, la braveria fu naturalmente eliminata dal corpo sociale.
In Sicilia, perdurando le condizioni del dominio spagnolo anche quando gli spagnoli non ci furono più, resistendo le strutture sociali della feudalità (e, per di più, di una feudalità piena di puntigli, avida di privilegi, rissosa, anarchica), quella che in origine era braveria diventò nel tempo quella che oggi conosciamo come mafia".
Così Leonardo Sciascia parla della mafia in un'intervista pubblicata su "Liberation", il 30 dicembre 1976